Intervista a Laura Forti, attrice, drammaturga e traduttrice per il teatro

Argomento: L'intervista
Pubblicazione: 9 giugno 2005

Quando è cominciata la sua attività di traduttrice per il teatro?

La mia attività è cominciata un po' casualmente, per necessità. Essendo io stessa autrice/attrice, sono sempre stata interessata a scoprire nuovi testi e, naturalmente, quando è possibile cerco di leggerli in originale; così è stato per George Tabori, che mi è capitato tra le mani quando ero nel pieno della mia "crisi-ricerca identitaria-ebraica". Cercavo interlocutori con cui condividere quel groviglio di domande, dubbi, angosce e curiosità che mi portavo dentro. Ricordo di essermi imbattuta su internet in un libro dal titolo inquietante, "The Theatre of the Holocaust", una raccolta di testi di vari autori curata da uno studioso, Robert Skloot, che in seguito sarebbe diventato mio grande amico. Non sapevo che esistesse un "teatro dell'olocausto", mi sembrava sufficientemente depressivo (!), così ho ordinato subito il volume su Amazon, e dopo pochi giorni ho scoperto "I cannibali", il primo testo scritto nel 68 da un autore ungherese, un certo George Tabori, che si era trasferito in America dopo la guerra e che lì aveva iniziato la sua vita professionale collaborando per Hitchcock e per Brecht. Sempre grazie alle mie incessanti ricerche sul web, ho saputo che "quel" George Tabori era uno dei più grandi scrittori contemporanei, che in Germania era considerato un mito vivente, e che "I Cannibali" era un capolavoro, rappresentato in tutto il mondo. Ho tradotto per primo questo testo, perchè volevo portarlo in teatro (e l'ho fatto, al Teatro Metastasio di Prato nel 2002), poi è nata una specie di "febbre taborica" che mi ha portato a tradurre anche "Mein Kampf" (pubblicato per Einaudi nel 2004, un anno dopo l'uscita dei Cannibali) e chissà, forse anche altre opere in futuro. Non sono mai sazia di questo autore, per me ha una ricchezza umana immensa. C'è tanto da imparare, su cui riflettere e mi tiene molta compagnia.

Quali sono le differenze sostanziali tra una traduzione di un testo scritto per essere letto e un testo scritto per essere recitato?

Nel caso dei testi teatrali, tutti i testi dovrevvero essere recitati! Purtroppo questo, almeno in Italia, quasi mai avviene, i testi teatrali nel migliore dei casi arrivano ad essere libri ma non vivono attraverso le voci degli attori, restano "imbavagliati". E' un grande dispiacere, perchè un'opera teatrale respira solo sul palco. Credo che quando si traduce un testo teatrale bisognerebbe avere la possibilità di leggerlo a voce alta, da soli, o perchè no, organizzando piccole sedute di lettura collettiva per sentire come le parole vengono masticate. Bisognerebbe ricrearsi il teatro, inventarlo quando non c'è. Come regola generale, non mi piace tradurre con termini "belli", cerco di trovare, nel rispetto del significato, parole che funzionino in bocca. Con i "Cannibali" ho avuto la fortuna di verificare la traduzione durante le prove dello spettacolo che ho diretto, a volte erano proprio gli attori a proporre cambiamenti, a fare domande, a dire "qui non torna tanto". E' stata una grande fortuna e che emozione sentire il testo recitato, sentirlo incarnarsi in esseri umani!

Quale autore contemporaneo, di teatro, le piacerebbe tradurre?

Ho un sogno nel cassetto, tradurre Hanoch Levin, un autore israeliano che corteggio da anni, sul quale ho costruito un grosso progetto teatrale (purtroppo sfumato!) e ho fatto una proposta ad una Ben Nota Casa Editrice; ma per il momento tutto tace. Forse perchè gli israeliani non sono tanto popolari in questo momento sul mercato italiano? Forse perchè questo autore non è vivente? (è scomparso nel 1999, ancora giovane). Sarebbe un peccato che una voce come quella di Levin restasse muta perchè è stato l'enfant prodige, il cantore appassionato e irriverente della società israeliana degli ultimi trent' anni, portando alla luce conflitti e contraddizioni con uno stile personalissimo, poetico e beffardo. Che si potrebbe desiderare di più da un autore teatrale? Un altro che mi sarebbe piaciuto tradurre è Tony Kushner. "Angels in America" è un capolavoro, ed è soprattutto un testo importante per capire il mondo e la società americana. Mi è stato fatto notare, anche giustamente, che è "troppo americano" e che il serial presentato di recente in sordina in televisione è stato un flop in Italia. Troppi gay, troppi rabbini, troppi angeli. Però forse varrebbe la pena di riprovare, di riproporre il titolo, magari inserendolo in un contesto di presentazione più forte. Tra l'altro adesso Kushner sta scrivendo un nuovo lavoro che deve essere altrettanto impegnativo, nel quale Laura Bush in Paradiso canta una ninna nanna per i bambini vittime della guerra in Iraq...Se il teatro deve esprimere la vita, la società, i sentimenti, i conflitti delle persone, o farci fare un pensiero - se non addirittura aprirci un varco - quale migliore occasione di questa?

Lei è anche attrice teatrale, questo l'aiuta nel lavoro di traduzione?

Aiuta nel masticamento delle parole. Come ho già detto prima, quando traduco mi metto sempre dal punto di vista dell'attore, mi chiedo "questo come lo direbbe?", mi immedesimo nel suo divertimento o cerco di capire se un certo passaggio gli consente un percorso emotivo o no... Certo, porsi questi problemi aiuta molto. L'orecchio è allenato e viene naturale cercare un ritmo ed una musicalità "parlata".

Ha tradotto due pièce di George Tabori "I Cannibali" e "Mein Kampf", ce ne può parlare?

Sono due opere molto diverse, appartengono a due fasi diverse della produzione di quest' autore. I Cannibali è il primo "vero" testo di Tabori, è del '68. E' un testo forte, spietato, scritto, come dice l'autore, "invece di avere un esaurimento nervoso". E' necessario perchè dentro c'è una ferita personale, essendo una terapia di elaborazione del lutto sulla morte del padre ucciso ad Auschwitz. In questo testo si immagina che un gruppo di discendenti di "padri" uccisi nel lager provi a ricostruire, con l'aiuto di due anziani sopravvissuti, l'ultima notte di vita dei loro genitori. Dalle poche notizie, i figli sanno che i genitori stremati dalla fame avevano deciso di mangiare il corpo di un compagno morto durante una zuffa, Puffi Pinkus, l'uomo grasso, così lo spettacolo ricostruisce questa preparazione rituale: mentre il corpo di Puffi viene sezionato e cotto in una grande pentola dal cuoco Weiss, il gruppo si scontra sulla decisione, c'è chi vuole mangiare, chi ha orrore di questo gesto, come "Zio Tabori" (l'autore non ha il coraggio di chiamarlo "padre" e usa un travestimento familiare), l'uomo di fede, che cerca di distogliere i compagni da quella che ritiene una scelta atroce e disumana. Ma in scena non ci sono veramente i prigionieri, ci sono i loro figli che tentano di ricostruire la figura di un genitore assente, che non hanno potuto conoscere. L'unica possibilità per relazionarsi a questa memoria cancellata è "diventare" il padre perduto, in un continuo gioco di identificazione/differenziazione. E il mangiare di cui si parla nel testo è chiaramente la metafora di una lunga elaborazione del lutto a cui anche il pubblico è chiamato a partecipare, e del masticamento doloroso di una memoria indigeribile. Tabori scardina tutte le regole convenzionali dell'"holocaust play": allo spettatore non è concesso di restare da solo con le sue lacrime o di crogiolarsi in un nessun compiacimento retorico. Il testo usa un umorismo nero, spietato, per tenerlo incollato alla sedia, per farlo sdegnare se necessario, ma per permettergli di elaborare continuamente insieme agli attori la materia trattata. I Cannibali è un'opera difficile da tradurre proprio per questo continuo gioco "dentro-fuori", per lo sforzo di restituire l'immediatezza del qui ed ora creato in scena dai figli, per gli improvvisi squarci poetici che si contrappongono all'orrore della situazione di partenza (le preghiere di Zio, le sue nostalgiche disperate evocazioni liriche del mondo della tradizione ebraica perduto per sempre e rappresentato nel testo, ad esempio dai numerosi termini yiddish che ho cercato di mantenere nell'originale per aumentare anche nel lettore-spettatore il senso di perdita e distanza). Di "Mein Kampf" parlerò diffusamente nell'articolo che mi è stato chiesto di scrivere, quindi non mi dilungo qui. Dico solo che tradurlo è stato un vero divertimento, perchè per tre quarti è una girandola di battute esilaranti, una galoppata nelle citazioni e nei generi teatrali - poi ha un ultimo quarto nerissimo dove il tono diventa tragico e arriva il cazzotto in pancia. Ma questo è Tabori: leggerezza e budella, lacrime e riso, orrore e ridicolo.

Qual è l'immagine del traduttore che emerge dai media?

Purtroppo non emerge un bel nulla. "Traduttore", come "drammaturgo", da noi sono mestieri inesistenti, clandestini e pochissimo riconosciuti (non solo economicamente). Per la giornata della memoria, quest'anno su Repubblica è uscito un mega articolo su Tabori, dove si parlava di "Mein Kampf", di "Cannibali". Non voglio attribuirmi "meriti", non mi considero "la Grande Madre" di Tabori, però credo di aver contribuito con tre anni pieni della mia attività di autrice/regista/traduttrice a far conoscere qui questo autore, ho lottato, mi ci sono spaccata anche i denti a volte... Mi è dispiaciuto, ad esempio, non venire nemmeno citata. I testi si erano tradotti da soli, evidentemente. Questione di ego? Forse. Ma perchè non dovrei desiderare di accompagnare con il mio nome, il nome dell'autore che ho amato e seguito nella nascita nella mia lingua? Perchè devo essere "punita" o colpevolizzata? E' come organizzare una bellissima festa e poi venirne esclusi all'ultimo momento perchè non si hanno le scarpe giuste o non si è considerati "à la page". Le sorellastre se la spassano e il traduttore-cenerentola resta a spazzare la cucina!! Chi lo decide?

Le piacerebbe che le riviste letterarie dedicassero uno spazio alla traduzione e ai traduttori?

Sì. Mi piacerebbe che i traduttori potessero parlare diffusamente degli autori dal loro punto di vista, che li potessero "raccontare", magari anche descrivendo il loro percorso di traduzione. Che ci comunicassero l'entusiasmo e l'emozione della scoperta. Sarebbe un bel viaggio per tutti.

Nella traduzione per il teatro è importante confrontarsi con l'autore?

Sì, sarebbe naturale e importante. O comunque autore e traduttore, secondo me, devono trovare il modo per costruire un rapporto, anche psichico. Ne parlo per esperienza diretta. Come autrice teatrale io lavoro quasi esclusivamente all'estero, soprattutto, per uno strano caso, in Germania. Il caso è doppiamente strano, visto che non so una parola di tedesco e quando mi traducono devo fidarmi ciecamente. Ho visto che la traduzione che funziona meglio è quella dove riesco a trovare un'empatia con il traduttore. Se resta esterno, se non si coinvolge, o se il testo non gli dice niente, il risultato è peggiore e si corre il rischio di essere fraintesi. Qualcuno, mi sembra David Grossman, ha definito la traduzione "un bacio attraverso un fazzoletto". E' un'immagine molto bella, evocativa. Il fazzoletto media, è qualcosa di delicato, un filtro creativo indispensabile. Ma il contatto delle labbra, il bacio, quello ci deve essere!

Si riesce ad avere lo stesso effetto della recitazione del testo in originale?

Dipende. L'inglese rispetto all'italiano ha tutto un altro suono, un altro ritmo, un altro modo di pensare, le parole sono più "corte" e quindi bisogna lavorare molto per trovare un' equivalenza metrica. Francese e italiano sono più simili. I tedeschi di noi italiani dicono che siamo velocissimi nel parlare, e quindi ci recitano a velocità supersonica... Chi traduce dovrebbe scegliere parole che abbiano assonanze, sforzarsi di trovare equivalenti nel parlato (non c'è niente di peggio che uno "slang" che non trova lo stesso impatto nell'altra lingua) e quando serve avere il coraggio di inventare. In Mein Kampf a volte trovavo dei neologismi, che prendevano spunto dallo yiddish ma non erano proprio parole yiddish, che in originale facevano molto ridere per il suono; ma quando tentavo di riproporli in italiano si sgonfiavano oppure erano incomprensibili. Così mi è capitato di inventare a mia volta un neologismo, per rendere viva la parola e la battuta. Un altro termine. magari già esistente e perfino più corretto, non avrebbe reso il gioco. Questo è l'unico "tradimento" che mi concedo, per il resto cerco di essere molto "letterale".

Oltre alla lingua, si può dire che è anche una questione di pubblico diverso?

Penso che il pubblico reagisca in base a come viene offerto il testo. Sicuramente un pubblico tedesco ha meno difficoltà a capire i termini yiddish in originale di un pubblico italiano. Allora bisogna trovare un escamotage, creare il gioco, far capire senza cambiare gli intenti dell'autore. Perchè se non si pensa al pubblico, se non si vuole coinvolgerlo, se si dice "chi non capisce, si arrangi" e si traduce per pochi eletti, non c'è comunicazione e l'energia, la potenzialità di un testo resta bloccata ed in espressa. E' una ginnastica, è una gran fatica, ma rende vivo un testo e il teatro