L'attentato di Sarajevo, di Georges Perec

Traduzione da: francese - Traduttore: Angelo Molica Franco | nottetempo, 2019

Acrobatiche sfide verbali
Dario Pontuale


Come definire un uomo che trascorre notte e giorno seduto al tavolino di un bistrò parigino mentre su un quaderno appunta tutto ciò che vede? Trascrive ogni particolare, classifica qualsiasi dettaglio, qualunque cambiamento. In quale modo definire un personaggio simile? Pazzo, eccentrico, bislacco, maniaco, ossessivo; come? Difficile affermarlo specialmente se quell’uomo assorto risponde al nome di Georges Perec e sta raccogliendo materiale per un libro.

Nato nel 1936 in un sobborgo popolare di Parigi, cresce in una famiglia di origine ebraico-polacca, il padre muore nelle trincee della seconda guerra mondiale e la madre resta vittima di un lager nazista. Lo alleva la zia, presta servizio nell’esercito tra i paracadutisti, studia sociologia alla Sorbona, lavora come documentarista al Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica. Perec è uno scrittore atipico, dallo sguardo attento, i capelli arruffati, il pizzetto ispido, l’intelligenza capace di rompere gli schemi e spingersi oltre. Si diverte con le parole, somiglia a un funambolo, le monta, le smonta, ne costruisce di nuove, ne inverte le lettere, le rimaneggia. Adora i cruciverba, i puzzle, gli anagrammi, gli elenchi, le liste ed è tra gli attivisti dell’OuLiPo: Ouvroir de Littérature Potentielle - Opificio di Letteratura Potenziale. Gruppo fondato nel 1960 dallo scrittore Raymond Queneau e dal matematico François Le Lionnais, iniziatori di un singolare progetto linguistico che esplora le potenzialità creative, formali e strutturali, svincolandole da qualsiasi legame letterario. Un laboratorio dedito all’inventiva, avverso alle costrizioni fonetiche, sintattiche e lessicali, nessun altro messaggio se non quello della pura scrittura.

George Perec fa parte dell’OuLiPo, mentre collabora con riviste letterarie, partecipa alla stesura di film, allestisce programmi radiofonici, pièce teatrali; l’imprevedibilità lo rende straordinariamente istrionico. È capace di esperimenti linguistici e narrativi inimmaginabili, tanto che Italo Calvino lo definisce «una personalità letteraria così singolare che non assomiglia a nessun altro» (lo stesso Calvino è tra gli esponenti dell’OuLiPo, grazie a un mazzo di tarocchi e al Il castello dei destini incrociati).

Seguendo il suo talento, Perec espande i canoni dell’esplorazione del testo dando vita a: Le cose (1965), Un uomo che dorme (1967), La scomparsa (1969) romanzo lipogrammatico (privo della lettera “e”), Les revenentes (1972), La bottega oscura (1973); W o il ricordo d’infanzia (1975). Le raccolte poetiche Alfabeto (1976) composte da eterogrammi (ogni verso è anagramma dell’altro), La Clôture et autres poèmes (1978) in cui si mescolano palindromi e acrostici. Nel 1978 pubblica la sua opera più celebre: La vita istruzioni per l’uso, un romanzo quasi enciclopedico, composto all’insegna della più spregiudicata sperimentazione letteraria. Un affresco di cento storie intrecciate sulle vite degli abitanti di un condominio parigino, nel quale una perenne intertestualità basata sul gioco degli scacchi, fornisce un prezioso contributo citazionale e combinatorio.

Perec muore a quarantasei anni, nel 1982, per un tumore ai polmoni, e fino a quel momento edita ancora: Storia di un quadro (1979), Storie di erranza e di speranza (1980), L’éternité (1981), lasciando incompiuto il romanzo poliziesco 53 giorni. Nel 1985 i suoi brani autobiografici, gli scritti scientifici e le osservazioni sul quotidiano vengono riuniti nel volume: Pensare/Classificare.

Una prosa complessa quella di Perec, evolutasi nei decenni, ma già palpabile quando, appena ventunenne, scrive: L’attentato di Sarajevo. Lo scrive ma lo tiene nel cassetto, la giovane età lo scoraggia dal pubblicare un romanzo che si prefigge di trattare l’omicidio commesso nel giugno 1914 contro l’arciduca Francesco Ferdinando, che invece tralascia il fatto storico, o almeno ne parla trasversalmente. L’autore francese si preoccupa, piuttosto, di narrare le vicende amorose di Branko, della sua fidanzata Mila e del protagonista, nonché voce narrante, conosciutisi durante le notti brave nella Parigi degli anni Cinquanta. Questo improbabile triangolo amoroso si sposta a Belgrado, poi in Serbia, infine a Sarajevo la città che funge da sfondo, dove l’attentato c’entra poco, ma dove tutto risulta necessario per immortalare le febbrili passioni dei tre giovani. Un romanzo a chiave, simile a quelli che Perec avrebbe intrecciato con maestria negli anni successivi, senza però inciampare in quei disequilibri narrativi che L’attentato di Sarajevo dimostra. Resta comunque un valido esperimento, splendido modello letterario dallo stile pregevole, indizio indiscusso della successiva e più conscia: “fenomenologia del quotidiano”. Un dattiloscritto edito sessant’anni dopo la sua stesura, smarrito e poi ritrovato, oggi tradotto con agile eleganza da Angelo Molica Franco e pubblicato in Italia da Nottetempo. Un’opera, dunque, che anticipa le acrobazie di uno dei maggiori interpreti della vita intellettuale degli anni Sessanta e Settanta; un libro scritto, guarda caso, di ritorno da un giovanile viaggio in Jugoslavia. L’indagine linguistica di Perec se da un lato privilegia l’aspetto ludico della scrittura, dall’altro ricopre un vuoto non soltanto letterario, infatti come egli stesso afferma: «scrivere è tentare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa». Poche parole ma chiare tanto da riuscire a capire più facilmente quell’uomo seduto al tavolo di un bistrò, fermo ad osservare la fittissima rete che regola l’enigma del visibile e dell’invisibile. Lo si potrebbe definire, allora, un uomo di “ingegno”, o meglio di “ingegni”, per usare un palindromo del quale Perec sarebbe compiaciuto.


Editore di L'attentato di Sarajevo, di Georges Perec