Intervista a Elia Barceló, scrittrice spagnola

Argomento: L'intervista
Pubblicazione: 29 dicembre 2009

In “Cuore di tango” uno dei personaggi afferma: “non c’è altra attività civilizzata in cui il maschio della specie umana possa marcare ciò che desidera e in cui la donna decida di seguirlo, consegnandosi fiduciosa, sicura. Il tango argentino è l’unico contratto che non si può rompere.” L’identità femminile, in tutta la sua grande varietà di personaggi, è una delle caratteristiche dei tuoi romanzi. Parlaci delle donne che ormai si consegnano fiduciose e sicure solo nel tango. C’è una nostalgia in questa mancanza del “lasciarsi andare”? Magari la nostalgia di un’identità femminile dimenticata?

Effettivamente, nei miei romanzi appaiono ogni tipo di personaggi femminili proprio perché nella vita stessa ci sono tutte queste diversità e mi sembra giusto convocarle e dare loro la voce che non hanno avuto per secoli. Nel caso di “Cuore di tango”, quella frase di cui parli è detta da un uomo e la nostalgia di quell’identità femminile è piuttosto quella che l’uomo – Rodrigo – sente. Lui fa l’informatico e vive nei nostri giorni, in un mondo in cui la maggior parte delle donne che svolgono una professione si è indurita proprio per riuscire nel proprio lavoro e perciò ha perso molta dolcezza, capacità di consegnarsi, di avere fiducia e di lasciarsi guidare dall’uomo. Rodrigo sogna il tipo di donna di quell’epoca andata, in cui un uomo poteva sentirsi ancora orgoglioso di proteggere una donna, di prendersi cura di lei e di trattarla come una regina.

Nel 1993 con “El mundo de Yarek” hai ricevuto il premio UPC sul racconto fantastico, definendoti scrittrice di questo genere. Quale significato ha avuto per te dimostrare che gli autori spagnoli potevano competere e persino vincere gli autori anglosassoni in un genere tradizionalmente di loro appannaggio? Come vedi ora il panorama di questo genere in Spagna? Quali sono gli autori che più ti piacciono?

Per me fu un grande onore, un autentico orgoglio personale e professionale. Personale perché sono stata la prima donna che ha vinto questo premio poiché il mondo della fantascienza in Europa è quasi esclusivamente di dominio maschile. Da allora ha vinto solo un’altra donna di nazionalità statunitense. Professionale perché ero convinta che gli spagnoli potevano dare alla fantascienza tanto quanto gli scrittori anglosassoni.ma non avevamo mai avuto la possibilità di dimostralo e, con questo premio, avevamo la prova che fosse possibile. Di fatto, da allora le case editrici non fanno più differenza tra autori nazionali o stranieri: se il romanzo è buono si pubblica e basta. Ci sono vari scrittori che si dedicano solo al genere fantastico e altri che si dedicano a questo genere occasionalmente. Personalmente mi piacciono José Carlos Somoza, Rafael Marín, Juan Miguel Aguilera, Rodolfo Martínez, Eduardo Vaquerizo, Santiago Eiximeno ..., come vedi tutti uomini!

A proposito dell’incomprensione creatasi intorno al tuo romanzo “Consecuencias naturales”, ho letto in un’intervista questa tua dichiarazione: “il lavoro dello scrittore finisce con la pubblicazione del libro e non ha alcun senso spiegare a posteriori ciò che si aveva la pretesa di fare. Il lettore lo vede o non lo vede, lo accetta o non lo accetta; ecco tutto.” Una dichiarazione forte e decisa che lascia molto chiara l’impotenza dell’autore di fronte a malintesi. Cosa sente lo scrittore quando consegna al mondo la propria creatura?

Nel mio caso è qualcosa che ho accettato da molto, come quando hai un figlio e devi affrontare, dal momento della sua nascita, che hai vent’anni per aiutarlo nella crescita, educarlo, contribuire a creare un modo suo di vedere il mondo, è un gran privilegio e lo fai nel migliore dei modi. Ma sai che arriverà un momento in cui farà la propria vita a modo suo. Con i romanzi succede qualcosa di simile. Mentre scrivi sono ancora solo tuoi e può farne quello che ti sembra meglio: cancellare, cambiare, aggiungere, dare spiegazione qua e là… ma una volta consegnati al pubblico è finita. Se qualcuno te lo chiede puoi fargli capire che cosa avresti voluto dire. Se non chiedono e si limitano a dare le proprie opinioni, sia che ti piacciano, sia che ti sembrino assolutamente sbagliate, non c’è più nulla che tu possa fare. Questo va saputo e accettato dapprima per risparmiarsi i dispiaceri.

Hai anche scritto racconti pubblicati in riviste spagnole e straniere. Sembra che finalmente si riconosce al racconto l’importanza che ha e non si considera più un “genere minore”. Che differenza c’è tra scrivere un racconto e un romanzo?

Scrivere un racconto è spesso più difficile perché parti da una scintilla e sai che hai a disposizione poco spazio per fissare quel lampo che deve impressionare il lettore come ha fatto con te. Julio Cortázar, usando una metafora presa in prestito dal pugilato diceva che “il romanzo vince per punti e il racconto per K.O.” La maggiorparte degli scrittori considerano i racconti come un genere più difficile e più soddisfacente, il problema è che gli editori insistono sul fatto che le raccolte di racconti non si vendono, perciò si pubblicano più romanzi. Un romanzo è un lavoro di tenacia, di resistenza, di strutturazione. Può avere frammenti meno intensi senza che il risultato si altera e persino prescinde di intere scene o capitoli senza che questo sia evidente. Un racconto è simile a una poesia: non si può cambiare nulla senza che cambi completamente. È un lavoro di oreficeria.

In Italia sono stati tradotti: “Il segreto dell’orefice” (Marcos y Marcos) e ora “Cuore di tango” (Voland). Una domanda quasi inevitabile per farti conoscere meglio ai lettori italiani: Come nasce in te il bisogno di scrivere? Quando e come hai iniziato a scrivere?

Notizia di ultima ora: è appena uscito in Italia un mio terzo romanzo, “La rocca di Is. Una storia vichinga”, pubblicata da Sei Frontiere, destinata in principio a un pubblico di ragazzi ma interessante anche per gli adulti. Rispondendo alla tua domanda, ho iniziato da molto piccola, raccontando oralmente storie alle mie amiche, in uno stanzino che mia nonna aveva sul terrazzo di casa sua. Erano racconti dell’orrore che inventavo (fantasmi e cose del genere) e adoravo constatare che facevano paura davvero; cioè che producevano l’effetto che cercavo. Imparai prestissimo a leggere (mia madre mi ha insegnato a quattro anni, per evitare che mi annoiassi). Così presto iniziai a imitare quello che leggevo, a inventare storie che ho scritto dai dodici anni. Comunque non le finivo mai perché mi risultava troppo impegnativo passare ore a scrivere quando potevo raccontarle di persona e ottenere un effetto immediato. I primi racconti finiti e “seri” (quelli che ritenevo di una qualità accettabile per essere mostrati in pubblico) sono dell’epoca dell’Università, avevo circa 21 anni. E i primi pubblicati in una rivista sono di quando ne avevo circa 22. Da allora iniziai a scrivere occasionalmente, quando veniva fuori un’idea per un racconto, ma senza pormi il fatto di diventare una scrittrice “vera”, di scrivere romanzi e pubblicarli. A poco a poco la scrittura è diventata parte della mia vita e mi accorgevo che mi venivano in mente storie, di forma continuata, che avevo voglia di scrivere. Iniziai a pubblicare nelle riviste, poi ho pubblicato un libro di racconti, ho vinto il Premio UPC, dopo ho scritto il primo romanzo per ragazzi che mi è valso il Premio Edebé e, quasi senza accorgermene né pretenderlo, sono diventata una scrittrice professionista. Ora scrivere è diventato un bisogno: mi aiuta a stare bene, mi dà equilibrio e inventare storie mi rende felice, mi piace passare mesi a scriverle, consegnarle ai lettori e fargli divertire leggendo quello che io ho inventato. Scrivere – come leggere – è una gioia.