
Una nota di traduzione andrebbe pensata e scritta contestualmente o appena completato
il lavoro cui si riferisce, quando la testa è ancora piena delle frasi che ti
hanno colpito, dei termini che ti hanno dato filo da torcere e il corpo conserva
la memoria delle ore passate al computer e a tavolino. Perché una volta che il
testo abbia trovato la sua strada sugli scaffali delle librerie, riconquistando
la propria autonomia, il percorso traduttivo sarà difficile da ricomporre con
la stessa efficacia. Una volta stampato, anche se in una lingua che io stessa
gli avrò prestato, quel testo smetterà di appartenermi; me ne sarò definitivamente
separata; a quelle pagine dovrò accostarmi con atteggiamento di lettrice, da una
distanza che tuttavia mantiene ancora viva la voce dell’originale, quella voce
che nel corso del lavoro ho costantemente sentito parlare. Di
Under My Skin, -
Sotto la pelle - primo volume della autobiografia di Doris Lessing, scrivo oggi, a distanza
di dieci anni dalla pubblicazione della mia traduzione per i tipi di Feltrinelli.
Si tratta di un testo corposo, quasi cinquecento pagine a coprire solo i primi
trent’anni della vita della sua autrice, un testo che Lessing pensa come risposta
stizzita al proliferare delle biografie non autorizzate, come spiega nel capitolo
iniziale. Quando il testo compare la sua autrice ha già settantacinque anni, è
famosa, pluripremiata ed è la più celebre autrice inglese del secolo; ha al suo
attivo oltre quaranta volumi tradotti in decine di lingue straniere, ha viaggiato
estesamente, è stata sposata due volte, è vedova, ha tre figli adulti e vari nipoti
adolescenti. Ha vissuto in Persia e in Africa e da oltre quarant’anni abita a
Londra. Eppure. Eppure quando scrive di sé e della sua famiglia, a partire dalle
due generazioni che la precedono, quando scrive di sé bambina, del rapporto con
i genitori, dell’Africa che ha fatto di lei ciò che è, il sentimento che prevale
è quello della rabbia. Una rabbia diretta e feroce, di lei piccolissima ma già
in lotta con il mondo degli adulti. Un mondo che non la capisce, perché non capisce
e non ama i bambini. Lessing scrive come se la distanza degli anni trascorsi si
fosse di colpo annullata, e a dominare su tutto fosse un sentimento di impotenza,
di ribellione, che costantemente le fa dire: "Così no. Io non sarò mai così. Non
sarò mai come loro".
Se si può immaginare un testo scritto con inchiostro di rabbia, di furore, ma
al contempo con i sentimenti speculari di amore e passione, questo è Sotto la
pelle, che prende il titolo da una famosa canzone di Cole Porter. E’ di questi
sentimenti – al loro meglio diretti all’Africa, alla condanna della violenza,
del razzismo, e di tutte le guerre- che mi sono innamorata, alla lettura del volume
in originale, tanto da chiedere all’editore italiano che me lo facesse tradurre.
Conoscevo già le opere di Doris Lessing, in particolare quelle ambientate in
Africa, per averne a lungo scritto e per averne tradotte altre due,
The Grass is Singing [L’erba canta] e
Particularly Cats, [Gatti molto speciali]; amavo e amo la scrittrice per il suo modo diretto e
imperioso di mettere a nudo l’ ipocrisia sociale e politica di una società che
si vuole democratica e perbenista, con il tono di chi non fa sconti: al mondo,
alla vita, e nemmeno a se stessa. Tanto decisa è questa sua modalità, che il
linguaggio che usa per darle parola è forte e diretto, privo di perifrasi e povero
di figure retoriche. E’ per questo che a lei si addice il ritmo lungo della prosa,
nello stile dei grandi narratori ottocenteschi, piuttosto che quello conciso,
distillato, del verso poetico. Lessing non sperimenta con il linguaggio: in lei
l’attenzione è tutta per l’oggetto del racconto. Il suo è un narrare che si costruisce
per accumulo, quasi che niente potesse rimanere non detto o sottinteso. In particolare
in questo caso, in cui l’oggetto del racconto è la sua stessa vita, con i legami
affettivi più problematici e delicati, con un corpo che cambia velocemente e
manda messaggi che le riesce difficile controllare. Con l’ambiente esterno, quest’Africa
tanto amata, che nel tempo sembra modellarlesi addosso avvolgendola come una seconda
pelle. Qui la forza dei contenuti è tale da respingere qualsiasi tentazione da
parte di chi traduce, di intervenire sui toni del racconto. Il mio italiano si
è messo al servizio di quel ritmo, che pur nella diversità degli alfabeti aveva
sin dall’inizio sentito come proprio, facendosene guidare. E l’emozione che la
lettura del testo mi rimanda ancora, a dieci anni di distanza, mi fa credere che
l’incontro sia riuscito.