
MIGRAZIONI
Yahya Hassan
di: Yahya Hassan
/ editore: Rizzoli, 2014
traduttore: Traduzione dal danese di Bruno Berni
Nell’ottobre del 2013, quando la raccolta di poesie di Yahya Hassan è uscita
in Danimarca, la stampa già parlava di questo diciottenne di origine palestinese
che aveva attirato l’attenzione ancora prima dell’esordio. Ma il successo dei
suoi testi ha preso di sorpresa tutti, al punto che prima di metà novembre, alla
fiera del libro di Copenaghen, le sue affollatissime letture e la fila per acquistare
il libro, mentre i diritti di traduzione venivano già trattati in diversi paesi,
facevano presagire che le trentamila copie vendute in poche settimane – una tiratura
inaudita per un volume di poesie – sarebbero aumentate rapidamente.
A distanza di qualche mese il libro di Yahya Hassan si avvia a essere un successo
internazionale, nonostante presenti per i lettori danesi difficoltà di vario tipo,
amplificate poi in traduzione. Come ha affermato un critico, «una notte Yahya
Hassan ha premuto il Caps Lock per diventare poeta»: scritte interamente in maiuscolo,
declamate come da un minareto nelle pubbliche letture, le sue poesie sono un grido
di accusa alla Danimarca che lo ha emarginato, ma anche alla generazione di immigrati
mediorientali che lo ha preceduto, incapace di integrarsi in una società in cui
pure vive da decenni. Con la sua doppia origine, perché nato e cresciuto al nord
ma in una famiglia palestinese, Hassan parla e scrive un danese standard, talvolta
anche alto (con una base di disordinate ma buone letture, è in grado di esprimersi
in quello che definisce «un danese ingannevolmente buono»), colorito da termini
gergali dei ghetti e arricchito, è il caso di dire, da parole arabe quando si
rendono necessarie.
Certamente i problemi nella lettura di Yahya Hassan, e dunque nella traduzione,
non risiedono solo nella lingua, ma anche nel doppio background culturale, a causa
del quale il traduttore accede a una comunicazione linguistica tutto sommato accettabile
– nonostante l’assenza di punteggiatura e di legami sintattici che spesso costringono
a una sensibile forma di interpretazione –, mentre quella non linguistica crea
difficoltà: partendo da una lingua nota ci si trova a comunicare un universo ignoto,
per descrivere il quale anche l’autore ha frequenti carenze lessicali che giustificano
il ricorso a termini arabi, talvolta con coloriture dialettali libanesi – perché
nei campi profughi del Libano Hassan ha trascorso molte vacanze fin da bambino.
Ma contrariamente a molti scrittori nordici dell’immigrazione, il giovane poeta
non sente l’esigenza di trovare un’identità nell’etnoletto che in Danimarca sarebbe
il perkerdansk, da perser – persiano – e tyrker – turco –, un ‘multietnoletto’
usato come segno distintivo dall’immigrazione mediorientale, talvolta persino
dai giovani etnicamente danesi, per distinguersi dalla cultura dominante: Hassan
scrive, come si è detto, un danese tutto sommato standard (seppure arricchito),
e solo nella parte finale dell’opera strizza l’occhio al lettore, anticipa le
sue obiezioni, lo sorprende indossando una maschera. «Forse mi preferireste così»,
sembra dire, e dopo aver dichiarato un omaggio alla poesia di Michael Strunge,
per trenta pagine oscilla provocatoriamente tra una fantasiosa forma di perkerdansk
e un linguaggio alto anche dal punto di vista lessicale, tra l’ostentazione di
uno standard letterario radicato nella poesia danese degli ultimi decenni e un
tono sfacciatamente basso.
Tutto questo ha costretto, in fase di traduzione, a una serie di scelte, per
conservare alcune assonanze – residuo di un passato da rapper – sottolineare l’uso
di elementi lessicali alti – che in italiano potevano non sembrarlo –, evidenziare
il tono declamatorio alla lettura, ricostruire la durezza dell’espressione. I
termini arabi, molti di uso non comune, hanno richiesto l’inserimento di un glossario,
che a quel punto ha accolto anche i toponimi e altri termini danesi per accompagnare
il lettore italiano nel contesto. Il lessico della tossicodipendenza ha reso necessarie
ricerche sull’argomento e soprattutto nell’ultimo difficile testo, dove il dialogo
tra i due mondi dell’autore – l’anima del migrante cresciuto nei ghetti e quella
del giovane poeta danese – si fa pressante, con rapidi scarti di tono anche da
un verso al successivo, la ricerca di un equilibrio ha preteso persino interventi
peggiorativi a ogni nuova lettura.
Di sicuro le poesie di Yahya Hassan fissano un nuovo standard letterario per
la Danimarca multiculturale, ma anche in un panorama europeo in evoluzione, dove
quest’opera sta per calare nella maggior parte delle lingue e in contesti sociali
non dissimili, sarà interessante vedere il suo impatto su una letteratura della
migrazione che non ha più interesse a caratterizzare se stessa come tale se non,
forse, per dare virtuosistico sfoggio di uno dei ruoli che è in grado di offrire.
Bruno Berni
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